WRC50: the show must go on

Copertina RS rallyslalom maggio 2022

C’è un sottile confine, si chiama pudore, tra il “minimizzare” alcuni personaggi ed eventi che hanno condizionato la storia, oppure arrivare a nasconderli “come la sporcizia sotto il tappeto”. Superare spudoratamente questo confine conferma che l’ignoranza è un male diffuso soprattutto ai piani alti del nostro sport. Chi nega la storia lo fa con l’intento specifico di cancellare ciò che è stato scritto con gesti eroici e in alcuni casi estremi. Lo sanno tutti che “motorsport is dangerous” al pari di “life is dangerous” e che nei rally ogni tanto si muore, proprio come si muore di infarto per strada, o battendo la testa in una caduta dagli sci, o peggio dopo aver pagato un biglietto per salire su una funivia che aveva bisogno di manutenzione. In ogni caso, le statistiche ci dicono che i rally sono lo sport meno pericoloso… Perché questa premessa un po’ bacchettona? Perché ho notato che i festeggiamenti del 50° anniversario del WRC sono serviti a sancire una definitiva divisione tra alcuni grandi campioni dei rally, come Sandro Munari (Coppa FIA Piloti, “madre” del WRC Piloti) e Markku Alén (campione del mondo rally per 11 giorni), e altri campioni, come i presenti Sebastien Ogier, Sebastien Loeb e Ott Tanak, Carlos Sainz, Ari Vatanen, Miki Biasion, Marcus Gronholm Petter Solberg e kaiser Walter Rohrl. Un errore enorme, perché il WRC deve la sua esistenza ai rally. Senza i rally non ci sarebbe stato bisogno di inventare un Campionato del Mondo.

Inoltre, non si è sentita una citazione, un saluto, un grazie ad Attilio Bettega, Henri Toivonen e Sergio Cresto? In fondo, il loro tributo ha “solo” cambiato il corso dei rally e acceso i riflettori sulla sicurezza. Nulla di nulla. Qualcuno potrà, giustamente a livello “burocratico”, sostenere: ma Munari non ha mai vinto un Mondiale e Alén non fu mai ufficializzato campione. Tecnicamente parlando è giusto, se non fosse che il WRC Piloti è l’evoluzione della Coppa FIA e che Munari è amato in tutto il mondo. Quindi, non farne neppure cenno, non dedicargli un saluto e un ringraziamento, annoverandolo tra i padri fondatori di questo campionato è un gesto altezzoso di maleducazione. O peggio ignoranza, a posteri la scelta… E veniamo ad Alén. I fatti ci dicono che a fine stagione vinse il Mondiale Rally 1986, la classifica era sub-judice per i “fatti” di Sanremo e un tribunale, quello sportivo internazionale, decise di ribaltare l’esito. Sappiamo che, dietro a questa decisione, c’erano pesantissime pressioni di potenti studi legali, pronti a portare in giudizio nei tribunali ordinari francesi la federazione. Questa serie di eventi del 1986, ci fa capire il perché gli organizzatori della festa, la federazione, abbia preferito glissare su quell’annata e su quella precedente, finendo per dimenticare anche Bettega, Toivonen e Cresto. Perché in fondo bisogna dimenticare quella “maledetta” stagione 1986, bisogna fare dimenticare a tutti che nei rally di quell’anno sono successe disgrazie annunciate sin dal Rally del Portogallo, in cui piloti e navigatori scioperarono denunciando la pericolosità delle nuove auto, delle regole della FISA (poi FIA) fatte senza criterio e senza interpellare chi quelle auto poi doveva guidarle in gara, e delle gestione del pubblico.

Passi il 1986, passi che siamo noi a non comprendere perché “The show must go on”, ma perché dimenticarsi di Martin Holmes e Hugh Bishop che, come ha ricordato Esteban Delgado, sono stati i pionieri del giornalismo rallistico e che hanno reso famosi centinaia di piloti, copiloti e team manager in tutto il mondo? E perché le pesanti assenze di Tommi Makinen, Juha Kankkunen, Timo Salonen, Stig Blomqvist, Didier Auriol, Daniel Elena e Julien Ingrassia?

Affettuosamente